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lunedì 16 luglio 2007

UNO DEI BUONI


Larga parte dei giovani oggi ci dicono che «questo mondo così com'è non ci piace» e che «un altro mondo è possibile». Cosa rispondiamo loro? «Io credo che dobbiamo renderci conto del tipo di comunicazione che c'è oggi. Ai tempi di Berlinguer la tensione ideologica portava la gente a riflettere, a pensare, a orientarsi e a scegliere. Oggi il tipo di comunicazione che c'è, così rapido e preordinato, fa sì che non si pensi più: i problemi vengono presentati e hanno già le loro soluzioni. Questo è talmente evidente che si fa fatica oggi nel mondo a distinguere le politiche di destra e quelle di sinistra, e a trovare il modo di sopravvivere nel mondo globalizzato in cui viviamo, senza rendersi conto che in fondo chi possiede i mezzi di comunicazione li utilizza secondo i propri interessi. Già nel 1980 il Rapporto Brandt dell'Onu (Rapporto sulla disparità fra Nord e Sud del mondo, promosso dall'ex cancelliere tedesco Willy Brandt, ndr) segnalava che il più grande pericolo per l'umanità non era la guerra atomica (allora possibile), ma la divaricazione fra la parte più ricca e sviluppata dell'umanità e quella più povera e dipendente. Cosa che va continuando dal 1980, per cui il mondo è organizzato dai G8, cioè dalle nazioni più ricche, secondo i loro interessi, rendendo sempre più emarginata la maggioranza dell'umanità. È questo tipo di atmosfera che rende difficile lo sviluppo di un pensiero autonomo, che nelle grandi linee viene orientato da chi ha in mano le leve del potere economico, politico e militare, e dalla stragrande maggioranza delle persone viene ricevuto automaticamente attraverso i mezzi di comunicazione di massa che offrono le soluzioni preordinate dei Grandi. Di questo credo siano vittime in modo particolare i giovani, che a questo forse non sono sufficientemente preparati. A loro dovremmo dire di rendersi conto che il futuro è nelle loro mani, ma devono cercare di essere consapevoli e responsabili dell'orientamento del mondo, altrimenti diventano strumenti di un mondo organizzato dagli altri per i propri interessi. Danno a questi giovani le cose rispondenti forse ai loro desideri più immediati, ma in fondo li mettono al di fuori delle leve dell'orientamento del mondo di domani». Lei, Monsignore, è stato molto in sintonia con il pensiero, non solo come intellettuale, ma come uomo di Chiesa, quindi con la sua azione di vescovo del cardinale Pellegrino, e in particolare alla sua lettera pastorale «camminare insieme», definita stoltamente «datata». Le posso chiedere perché una figura eminente come la sua è stata praticamente rimossa dalla Chiesa piemontese? «Credo che vada sottolineata intanto l'importanza delle due parole "camminare insieme", nel senso che anche all'interno del mondo ecclesiale c'è chi spinge per camminare ma autonomamente, o a gruppetti, e chi, per stare insieme, sta fermo. Direi invece che è una fondamentale legge dell'umanità e della Chiesa quella di camminare insieme. Quanto al cardinal Pellegrino, al di là della sua ben documentata formazione intellettuale, sul piano umano, mi piace ricordare che quando aveva un'intuizione su qualche verità o orientamento lo presentava con molto vigore, alle volte anche con poca diplomazia. Anche quando parlava all'interno della Cei, ricordo che spesso usava forme che si prestavano ad essere criticate per alcuni particolari, e questo lo rendeva forse meno efficace. D'altra parte è anche vero che quando si propongono dei notevoli cambiamenti si trovano delle notevoli resistenze. Basta guardare anche oggi come viene considerato il Concilio: l'autorità religiosa di Bologna non c'era ai funerali di Alberigo e non ho potuto presiederlo io, vescovo. Criticano Alberigo perché considerava il Concilio come un evento di grande cambiamento, mentre loro lo considerano solo un'accelerazione, che non va interpretato come una discontinuità ma come una continuità. Su un piano dogmatico è vero che c'è continuità, non ci sono verità nuove, ma su un piano pastorale invece la discontinuità è fortissima. Un vescovo romano è addirittura arrivato a dire che siccome Paolo VI accettava sollecitazioni della minoranza, il Concilio va interpretato secondo la minoranza. Sarebbe come dire che siccome un quadro deve avere una cornice, la bellezza del quadro è determinata dalla cornice. E questo si dice in un volumone presentato dal cardinal Ruini e dal professor Riccardi (docente di Storia del Cristianesimo e fondatore della Comunità di S. Egidio, ndr) a Roma». Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele, non si stanca mai di ripetere, rifacendosi al Vangelo, «di essere schierato dalla parte degli ultimi». Non si ha la sensazione che questa massima evangelica sia molto osservata non solo dagli uomini politici ma anche dalla stessa autorità della Chiesa di Roma. Mi sbaglio? Nel recente viaggio in Brasile del Papa si è avuta l'impressione che quella moltitudine di poveri, «gli ultimi», siano stati un po' trascurati. «C'è un documento Cei del 1981, che è un'isola, perché dice che bisogna cominciare dagli ultimi; ma in seguito non se n'è tenuto molto conto. Questo anche perché si è fortemente condizionati dall'opinione pubblica, che non è fatta dagli ultimi, ma dai mezzi di comunicazione di massa che sono in mano ai potenti, i quali hanno l'abilità di presentare delle motivazioni anche umanistiche per quelli che sono i propri interessi. Basti pensare a chi dice di fare la guerra per portare la democrazia quando invece si sa che c'è ben altro sotto. Quindi è difficile continuare a partire dagli ultimi perché siamo parte di un meccanismo che non lo prevede. Pensiamo anche all'otto per mille, che certo permette alla Chiesa di fare del bene, ma che in fondo mette la Chiesa nell'esigenza di muoversi nell'ambito finanziario. Quindi si fa molto per gli ultimi ma sempre partendo da un certo tipo di mondo. Paolo VI preparò la Popolorum progressio del 1967, un'enciclica molto forte che fu il suo modo per dire che la Chiesa stava con i poveri. Ma il vero intervento fu fatto nel 1968 a Medellin dai vescovi dell'America Latina, i quali dissero che bisognava incominciare a vedere le cose con gli occhi dei poveri. Invece oggi normalmente i mezzi di comunicazione di massa ci presentano le cose con gli occhi dei ricchi, tant'è vero che oggi la prima cosa che si fa per salvare l'economia è licenziare gli operai. Io ricordo che, quando vendevamo le armi a Iraq e Iran (ed è proibito vendere armi a paesi belligeranti), il nostro bravo Ministro della Difesa d'allora la prima volta disse che noi le vendiamo a tutti e due (e vinca il migliore!), la seconda volta disse che "non sapeva", (ma un ministro dovrebbe sapere!); e la terza volta disse che di due casi sapeva ma aveva chiuso gli occhi perché altrimenti sarebbero fallite due fabbriche italiane. Ecco, questo è vedere con gli occhi dell'economia e di chi sta bene, mentre partire dagli ultimi significa soprattutto guardare dal loro punto di vista. Questa io credo che dovrebbe essere la grande presa di coscienza che dovremmo fare: noi ci preoccupiamo dei giovani, ma quando loro vedono che i grandi corrompono e fanno i loro interessi a discapito degli altri possiamo poi lamentarci se nel loro piccolo fanno altrettanto? Per quanto riguarda il viaggio in Brasile è normale che succeda questo, perché chi organizza non vuole far vedere la miseria. Succedeva anche quando andava Giovanni Paolo II, anche se magari voleva fermarsi a benedire una capanna in Africa veniva bloccato, perché questi viaggi sono tutti organizzati nel dettaglio, e chi organizza vuole fare bella figura». Motivo di questo nostro colloquio è stato quello di verificare una sensazione che ci angoscia, cioè di vivere un tempo «dissociato», quasi che una forma di virus misterioso abbia colpito le classi dirigenti dell'umanità accentuando le disuguaglianze, la povertà, la violenza, mettendo a rischio quelli che vengono chiamati «i beni comuni» sull'altare di una falsa modernità. Non ritiene che la Chiesa in un contesto mondiale caratterizzato da una drammatica realtà potrebbe avere una grande funzione di orientamento, di guida, nonché di denuncia? «Io credo che qualcosa si muove, ma purtroppo succede lentamente. Ai vertici nel 1989 a Basilea per la prima volta si sono incontrati i Cristiani d'Europa, Cattolici, Protestanti e Ortodossi; e il tema era "pace e giustizia a salvaguardia del creato". Significava che prima di metterci d'accordo sul piano dei valori teologici, sui quali si continuerà sempre a discutere, bisognava mettersi insieme sui valori dell'umanità, sui grandi temi. Fu una cosa molto importante. Papa Giovanni ebbe a dire "ma se noi guardiamo bene Gesù aveva posizioni che oggi chiameremmo di sinistra". Noi siamo più propensi ad intervenire sulla morale individuale, che poi però viene lasciata alla valutazione della persona, che su quella sociale, che sfocia nel politico. Ma dovremmo avere la chiarezza di dire che non possiamo prendere come principio politico il potere e l'interesse perché questo è proprio quello che scredita la religiosità. Giovanni Paolo II ebbe questa grande intuizione di convocare ad Assisi tutte le religioni dicendo che pur avendo opinioni e nomi diversi adoriamo tutti lo stesso Dio e non possiamo più fare le guerre in nome della religione. Papa Giovanni diceva già nel 1963 nella Pacem in terris che dati i mezzi di distruzione che ci sono oggi e date le possibilità di incontro, ritenere che si possa portare avanti la pace con la guerra è alienum a ratione, che fu tradotto "sembra impossibile" ma in realtà significa "è roba da matti". Papa Giovanni Paolo II nel dicembre 2003 arrivò a dire che si doveva insistere di più sulla non violenza attiva, perché proprio secondo i principi cristiani dovremmo condannare la guerra».

La nostra è una rivista che si rivolge in modo particolare alle nuove
generazioni. Se dovesse inviare loro un messaggio cosa gli direbbe?

«Gli direi innanzitutto di cercare di pensare, di farsi delle idee
proprie attraverso verifiche e confronti. Poi direi loro di mettersi
insieme ad altri, perché da soli non si arriva da nessuna parte. Io
penso sempre ai giovani del '68, che dicevano "facciamo l'amore e non
la guerra": di fronte ad un mondo tutto orientato al consumo, organizzato
per la produzione e per il commercio, con il settore delle armi in testa
all'industria, loro auspicavano un mondo impostato sull'umanità. Certo,
poi l'amore bisogna anche farlo per bene».

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IL SILENZIO È DEI COLPEVOLI


La parola e` l’archetipo dal quale in ogni religione, la creazione prende origine.
L’essere umano e` la sola specie dotata di parola, siamo gli unici dunque, in grado di comprendere la creazione.

L’unione di molteplici punti di vista, la libera comunione d’idee ed esperienze sono per me, il solo sistema che possediamo per progredire com’esseri viventi. Questa è una delle ragioni che mi portano a scrivere. Perché la scrittura a differenza delle volatili parole, permane.
Non sono uno scrittore, non possiedo, infatti, l’arte del dire per iscritto. Da sempre pero` traccio segni indelebili, per raccontarmi e raccontare. Questo mi rende un semplice, artigiano di parole.

Quello che segue non ha altro valore oltre a quello che vorrete attribuirgli. Non vi sono verità assolute, ma opinioni che vi possono offrire alternativi punti di vista. Il mio unico auspicio è che possiate riflettere, così come ho fatto io, sulle molteplici cose che la vita mi ha portato a conoscere.