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lunedì 2 luglio 2007

GUEVARALAND





Con le guerriglie che ogni sera accendono i Paesi alla fine del mondo
(tre ore d'aereo dalle nostre abitudini) sembra paradossale la commozione
che accompagna il ricordo del guerrigliero dei guerriglieri del secolo
appena alle spalle. Ma la giovinezza brucia le rabbie e intiepidisce gli
slanci e la memoria perde nel tempo veleni e ambizioni, ma non svaniscono i
sentimenti, e il guerrigliero dei guerriglieri è un sentimento che
accompagna due o tre generazioni cresciute sotto il segno del Che
Guevara:poster, t-shirts e barbe dietro alle quali le masse adolescenti
enfatizzavano rivoluzioni quasi sempre allo yogurt. E adesso comincia
l'estate del Che. Guevara è morto in ottobre, 40 anni fa, ma giornali e
librerie, dibattiti e graffi si preparano all'evento. Mancano quattro
mesi e già propongono antiche e nuove immagini: dal film «Viaggio in
motocicletta» al documentario premiato con Gianni Minà al festival di Berlino. E la
straordinaria ricostruzione su chi ha tradito Guevara: Erik Gandini
l'ha raccolta in un documentario - «Sacrificio»- incoronato in Brasile e
Portogallo.
Sacrificio di Guevara che immalinconisce Josè Saramago, Eduardo
Galeano, Osvaldo Soriano, Julio Cortazar. Chi lo ha incontrato e chi lo ha solo
immaginato da lontano assieme a milioni di ragazzi anni sessanta. Il
Che è morto quando aveva quasi 40 anni; ne avrebbe quasi 80 ma nessuno riesce
a immaginarlo con la barba bianca così diverso da come lo ha sorpreso la
Leica di Korda. Per ogni giovinezza quale simbolo più esaltante di un
argentino di buona famiglia, cura i lebbrosi, libera Cuba dalla dittatura e subito
ricomincia a camminare nell'illusione di liberare il resto del mondo?
Ricomincia tagliando il passato: quando muore, muore un apolide che ha
rinunciato agli onori e alla cittadinanza cubana e non ha chiesto a
Buenos Aires di rimettere il nome nei registri argentini. È diventato nessuno.
La febbre del '68 era alla ricerca di un simbolo da sventolare nelle
piazze. La foto che nel 1967 esce dalla valigia di Gian Giacomo Feltrinelli
reduce dall'Avana dove incontra l'Italo Calvino che ha attraversato il mare
per sposarsi nella città nella quale è nato; questa foto del Che dallo
sguardo smarrito regalata da Korda all'editore del «Dottor Zivago», diventa la
bandiera che tutti aspettavano. E ancora attraversa le piazze inquiete
40 anni dopo quando i fan hanno perso l'innocenza dell'idealismo per farsi
largo nella vita: dirigenti d'azienda, machiavelli nei giornali, capi
di personale che non perdonano, mentre il Che è sempre lo stesso: la morte
ha pietrificato giovinezza e utopia. Ma non subito e non in ogni posto.
Gli anni settanta sono anni complicati per l'America Latina. Il basco di
Guevara non riusciva ad attraversare certe frontiere. I camion carichi di merci
e campesinos che salivano dal Perù governato da generali progressisti ed
entravano nella Bolivia del generale Banzer, prima di arrivare alla
dogana sul ponte del Rio Desaguadero, facevano toeletta. Giravano le fiancate
di legno sulle quali era stampata l'immagine di Korda per offrire alle
polizie un messaggio senza problemi: «Todo va bien con coca cola». La notte
argentina si è allungata agli anni ottanta. Regime militare che
inceneriva ogni disobbedienza censurando anche i pensieri. «Era sufficiente
tornare dall'Europa con un giornale con la foto del Che e si spariva. Ecco
perché nessun ragazzo argentino lascia infoltire la barba; nessuna ragazza va
in giro con un basco francese. Troppo pericoloso. E la cautela sopravvive
alla fine della dittatura. Non si sa mai...»: amarezza di Ernesto Sabato,
grande scrittore con un dubbio che vent'anni dopo è stato cancellato. «Chissà
se gli argentini sapranno mai chi è stato Guevara». Guardando la sala
delle 500 poltrone, Fiera del Libro di Torino, camicie e giacche blu appollaiate
fin sotto il palco dove la figlia del Che presentava il libro della madre
stretta da una folla che spaventa gli organizzatori; guardando facce di
generazioni diverse, mi sono chiesto: ma tutti, proprio tutti, sanno
cos'ha fatto Guevara? Eccitazione troppo giovane, entusiasmo delle magliette.
E sessantenni sull'orlo della pensione ormai disposti a recuperare
l'idealismo chiuso nel cassetto negli anni della carriera. Non si è spenta la
curiosità dell'ascoltare come la moglie racconta il marito. Fin dalla seconda
pagina del libro ci si dimentica di tutti i libri che da quarant'anni hanno
raccontato la sua storia. Il Che lavora giorno e notte: dorme cinque
ore, si sveglia e torna in ufficio. Appena sposato il Che ministro parte per
Africa e Oriente: deve convincere cinesi, indiani e i presidenti del
continente che la democrazia cubana può cambiare il mondo. «Un viaggio di tre
mesi. Posso lavorare come segretaria, ma voglio stare con te», implora
la giovane sposa. Impossibile, risponde il giovane marito. «Sarebbe un
privilegio che chi dà l'esempio non si può permettere». E Aleida resta
a casa. Quando nasce Aleidita, la pediatra commossa sul palco di Torino,
il Che è in missione. Manda un telegramma da Shangai: aveva sognato un
figlio maschio da chiamare Camillo come Cienfuegos, compagno sulla Sierra:
«Con la solita ironia mi prende in giro: "Allora è una femmina. Chissà perché
ti impegni sempre nel farmi arrabbiare"». Arriverà anche Camillo e Aleida
«per ordine di Fidel» può raggiungere il marito sotto la tenda della
guerriglia africana o a Praga dove l'irritazione di Mosca lo costringe ad un
esilio concordato con Castro. Sono gli ultimi giorni che i due sposi
trascorrono da sposi sia pure in vacanza coatta. Ufficialmente a Cuba Guevara non
torna più. Torna un uomo dai capelli rasati, occhiali di vetro e protesi in
bocca per perdere l'accento argentino: si preparava a sparire in Bolivia. È
l'ultimo ricordo di Aleidita bambina.Rodolfo Walsh, giornalista e drammaturgo, è
fra gli argentini che corrono all'Avana dopo la vittoria della rivoluzione:
«Risento il vecchio Hemingway dire queste parole: "Andiamo a vincere, noi cubani
andiamo a vincere"» e quando Walsh lo guarda con aria dubbiosa, lo
scrittore si scusa battendo le ciglia: «D'accordo, sono yankee, non cubano ma
questi ragazzi mi piacciono». Gli piace il Che che piomba all'Avana dove «gli
abitanti impiegano un po' di tempo per abituarsi al suo humor freddo e
sottile, così porteño: cade loro addosso come un temporale. Quando
capiscono chi è diventa una delle persone più amate». «Traditore», gli dice
Eduardo Galeano( prima o poi inserirò l'intera intervista) mostrandogli il ritaglio di un giornale: appariva vestito da
pitcher e giocava a baseball. Traditore perché un argentino deve credere solo
al gioco del pallone e perché il baseball è una piega dell'imperialismo
americano. Traditore? Il Che scoppia a ridere. «La conversazione
rimbalzava come una pallina da ping pong da un argomento all'altro, da un ricordo
a un rimpianto. "Che cos'ha la mia mano?", chiede il Che a Galeano: "È
maledetta", risponde lo scrittore. "Maledetta?". «Ha salutato Frondizi
(presidente argentino) e Frondizi è caduto. Ha salutato Janio Quadros
(presidente brasiliano) e Janio Quadros è caduto. Per fortuna che non
ho nessuna carica dalla quale cadere e ti posso dare la mano. E lui
rideva, si accigliava, camminava per la stanza lasciando cadere la cenere del
sigaro.Me lo puntava al petto fingendo una minaccia». Il premio Nobel José
Saramago non lo ha mai incontrato ma non gli piace che il Che sia stato usato
«come incongruente oggetto di arredamento in molte case della piccola e media
borghesia... sorta di rischiosa maniera per occupare l'ozio della
mente, frivolezze mondane che non hanno mai retto il minimo scontro con la
realtà quando è venuto il momento di passare dalle parole ai fatti. Ed è
allora che il ritratto del Che, testimone di così tante azioni d'impegno, della
paura nascosta, della codardia rinunciataria o addirittura del tradimento, è
stato tolto dalle pareti e nascosto o distrutto come se si avesse avuto a che
fare con qualcosa di cui vergognarsi».

L'ipotesi di Saramago fa balenare il ricordo di Regis Debray ( vedere Erik Gandini
"Sacrificio"): intellettuale rivoluzionario, lo aveva raggiunto sulle pietraie
della Bolivia per raccogliere le sue ipotesi sul futuro dell'America Latina.
Ma appena lo catturano i ranger boliviani che danno la caccia ad una banda di
straccioni armati, Debray si difende con poche parole di delazione: «Sono un
giornalista e un saggista francese. Ho solo intervistato Che Guevara».
Il Che, qui? Fino al momento nessuno ne sospettava la presenza. E comincia
la grande caccia: cattura e morte. I primi saggi di Debray raccolgono
l'ammirazione per il guerrigliero maestro. Ma ad ogni decennale della
scomparsa l'entusiasmo si affievolisce, cominciano i dubbi che
diventano accuse terribili dopo la scomparsa del presidente Mitterand del quale
era consigliere. Il Che autoritario, sadico, psicopatico. Gli ultimi
insulti risalgono al '97. Chissà cosa sta preparando per il quarantesimo
anniversario. I giornalisti grigi che hanno invece seguito gli ultimi
passi del Che in Bolivia, sono passati dal silenzio timoroso della gente di
La Higuera (paese dei fichi dove è stato ucciso), alle ammissioni di
averlo conosciuto, alle vanterie di avergli portato le ultime sigarette nella
scuola dove aspettava la morte: il tempo passava, la paura spariva. A
poco a poco il Che è diventato l'orgoglio dei contadini che lo avevano
venduto. Nel '97 Walter Romero, scrivano e memoria storica di La Higuera, sospira
con malinconia nello studiolo di pochi libri. «Guevara può diventare
l'attrazione turistica di questo posto, polvere, rocce e niente.
Mancano perfino le strade». Allunga una cartolina: l'immagine del Che sfumata
nel fondo è attraversata da una linea rossa, l'ultimo viaggio. Accampamenti
e soste, casa per casa, testimone per testimone: «L'abbiamo fatta
stampare a Santa Cruz de la Sierra chiedendo al governo di La Paz di organizzare
qualcosa. Nessuno si è fatto vivo». Adesso si è fatto vivo il governo
di Evo Morales. È nata la «strada del Che»: 18 chilometri di una via Crucis
con stazioni dolorose. Qui ha sofferto un attacco d'asma, qui non ha
sparato a un povero graduato della polizia che non sapeva d'essere sotto tiro,
qui è scappato nella notte mentre arrivavano i rangers. Le agenzie turistiche
diffondono la lista dei «Che Hotels»: a Santa Cruz il Discount Hotel
offre il 70 per cento di sconto alle carovane degli stranieri che si
ripercorrono i passi di Guevara. Le chincaglierie dei ricordi affollano le
bancarelle. Magliette «originali» con il basco di Korda vendute a prezzo
d'affezione: 8,9 dollari. Il pericolo è che il ricordo diventi una celebrazione
pasticciata dalle caricature di ogni Disneyland. Nel bene e nel male
Guevaraland può far piacere solo a chi mette un piatto in tavola in un
posto dove le tavole sono ancora vuote. Perché la memoria è un segreto del
cuore che non batte più forte fra i cotillon. La sua rivoluzione boicottata
da Mosca è finita al cimitero ma quarant'anni dopo nasce Guevaraland e le sue
magliette vanno ancora a ruba.

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IL SILENZIO È DEI COLPEVOLI


La parola e` l’archetipo dal quale in ogni religione, la creazione prende origine.
L’essere umano e` la sola specie dotata di parola, siamo gli unici dunque, in grado di comprendere la creazione.

L’unione di molteplici punti di vista, la libera comunione d’idee ed esperienze sono per me, il solo sistema che possediamo per progredire com’esseri viventi. Questa è una delle ragioni che mi portano a scrivere. Perché la scrittura a differenza delle volatili parole, permane.
Non sono uno scrittore, non possiedo, infatti, l’arte del dire per iscritto. Da sempre pero` traccio segni indelebili, per raccontarmi e raccontare. Questo mi rende un semplice, artigiano di parole.

Quello che segue non ha altro valore oltre a quello che vorrete attribuirgli. Non vi sono verità assolute, ma opinioni che vi possono offrire alternativi punti di vista. Il mio unico auspicio è che possiate riflettere, così come ho fatto io, sulle molteplici cose che la vita mi ha portato a conoscere.