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giovedì 19 febbraio 2009

FEDELI A SE STESSI




Essere se stessi è la sfida della vita.
Uno degli scrittori a me più cari, Julio Cortazar, osservava che la fedeltà assoluta alla propria natura, al proprio destino e alle proprie inclinazioni, ha un prezzo altissimo.
Essere se stessi, calarsi da macigni nelle proprie tenebre o dissolversi come polvere nelle proprie luci, ha un costo esorbitante davvero, quale la vita per un soldato. I grandi scrittori, cavalieri del tutto e del nulla, l’hanno pagato sempre. I mediocri mai. Sono loro, i Rimbaud, i Balzac, i Dostoevskij, i Musil, i Cortazar, i nostri condottieri nelle terre inesplorate della ragione e della fantasia, ma prima di condurci per mano lassù o laggiù, si sono addentrati da solitarie staffette, esploratori isolati dei territori tempestosi e oscuri che si ergono alla frontiera fra delirio e realtà.
Chi siamo noi, lo dobbiamo a loro. Molto di quel prezzo, di quel soldo di esistenza, ce l’hanno anticipato pagandoci il biglietto e rimettendoci il costo delle loro esistenze sempre esasperate, assai sovente, purtroppo, disperate.
Cortazar, di cui ricorre il 25º anniversario della morte, amava fraternamente un altro cavaliere senza macchia e paura, che a se stesso ed a quello che rappresentava a sacrificato la vita. Letteralmente. Quel cavaliere si chiamava Ernesto Guevara, ma il mondo lo conobbe come il CHE.
Quando il Che venne ucciso, Cortazar scrisse questa lettera ad amici in comune ed una poesia.( che allego dopo, LA LETTERA TRADOTTA, LA POESIA NO, MAI )
Due uomini diversi, due vite opposte, ma una unica fede. Fedeli a se stessi. Fino alla fine a qualunque prezzo.
Ricordiamocelo sempre, non possiamo essere altro di ciò che siamo. Tutto il resto sono ombre sui muri di quel condominio chiamato cervello.







Julio Cortázar


París, 29 de octubre de 1967


Roberto, Adelaida, mis muy queridos:



Questa notte sono tornato a Parigi da Argel. Solo ora, a casa mia, sono capace di scrivervi coerentemente; lì, messo in un mondo dove contava solo il lavoro, lasciai passare i giorni come in un incubo, comprando giornale dopo giornale, senza volermi convincere, guardando quelle foto che tutti abbiamo visto, leggendo gli stessi collegamenti e entrando ora dopo ora nella più dura delle accettazioni. Quindi mi giunse telefonicamente il tuo messaggio, Roberto, e mandai questo testo che dovresti ricevere e che torno ad inviarti qui affinché se hai tempo lo leggi prima che si stampi, poiché conosco i meccanismi del telex e quello che succede con le parole e le frasi. Voglio dirti questo: non so scrivere quando qualcosa mi fa tanto male, non sono né sarò mai lo scrittore professionista pronto a produrre quello che si aspetta da lui, quello che gli si chiede o quello che lui stesso si chiede disperatamente. La verità è che la scrittura, oggi di fronte a questo, mi pare la più banale delle arti, una specie di rifugio, di simulazione quasi, la sostituzione dell’insostituibile. Il Che è morto e a me non resta che il silenzio, chissà fino a quando; se ti ho inviato questo testo è stato perché sei tu che me l’hai chiesto e perché so quanto amavi il Che e quello che significava per te. Qui a Parigi incontrai un collegamento di Lisandro Otero che mi chiedeva centocinquanta parole per Cuba. Così, centocinquanta parole, come se uno potesse tirarsi le parole come monete dalla tasca. Non credo che posso scriverle, sono vuoto e secco, e cadrei nella retorica. E questo no, soprattutto questo no. Lisandro mi perdonerà il silenzio, o lo fraintenderà, non m’importa; in ogni caso tu saprai quello che sento. Guarda, lì in Argel, circondato da imbecilli burocrati, in una officina dove si seguiva la routine di sempre, mi chiusi più volte nel bagno per piangere; dovevo stare nel bagno, capisci, per restare solo, per poter sfogarmi senza violare le sacrosante regole del buon vivere in una organizzazione internazionale. E tutto quello che ti racconto mi fa anche vergogna perché parlo di me, l’eterna prima persona del singolare, e in cambio mi sento incapace di dire niente di lui. Sto zitto quindi. Ricevesti, spero, il collegamento che ti inviai prima del tuo messaggio. Era la mia unica maniera di abbracciarti, a te e Adelaide, a tutti gli amici della Casa. E per te è anche questo, l’unica cosa che fui capace di scrivere in quelle prime ore, che nacque come una poesia e che desidero che tieni e che conservi affinché restiamo vicini.



Che
Yo tuve un hermano.


No nos vimos nunca pero no importaba.


Yo tuve un hermano que iba por los montes mientras yo dormía.


Lo quise a mi modo, le tomé su voz libre como el agua, caminé de a ratos cerca de su sombra.


No nos vimos nunca pero no importaba, mi hermano despierto mientras yo dormía, mi hermano mostrándome detrás de la noche su estrella elegida.

Hasta siempre Julio.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

solo un commento. GRANDE!!

Gio

Anonimo ha detto...

Due miti, un unico cuore. Fedeli a se stessi. Lo scriverò su tutti i muri della mia cazzo di città.

Hasta la vitoria

Stefano Masei

IL SILENZIO È DEI COLPEVOLI


La parola e` l’archetipo dal quale in ogni religione, la creazione prende origine.
L’essere umano e` la sola specie dotata di parola, siamo gli unici dunque, in grado di comprendere la creazione.

L’unione di molteplici punti di vista, la libera comunione d’idee ed esperienze sono per me, il solo sistema che possediamo per progredire com’esseri viventi. Questa è una delle ragioni che mi portano a scrivere. Perché la scrittura a differenza delle volatili parole, permane.
Non sono uno scrittore, non possiedo, infatti, l’arte del dire per iscritto. Da sempre pero` traccio segni indelebili, per raccontarmi e raccontare. Questo mi rende un semplice, artigiano di parole.

Quello che segue non ha altro valore oltre a quello che vorrete attribuirgli. Non vi sono verità assolute, ma opinioni che vi possono offrire alternativi punti di vista. Il mio unico auspicio è che possiate riflettere, così come ho fatto io, sulle molteplici cose che la vita mi ha portato a conoscere.